Crederci e poi crederci sempre.

Crederci e poi crederci sempre.

Tante cose strane  ti succedono nella vita,  cascate di eventi che sembrano slegati tra loro, ma che poi si agganciano in un disegno troppo complesso e intelligente per poterlo immaginare, e non c’è immaginazione che tenga, perché guardando indietro capisci, che tutto ciò che sembrava casuale, era in realtà un piccolo progetto di vita con te come protagonista, ma tu piccolo essere umano, non avresti mai potuto avere tanta e poi ancora tanta fantasia da  indovinare dove certe cose vanno a…..” parare”.

Forse sto vaneggiando, non lo so, ma in questo momento è così che vedo tutto quanto mi è successo da tre anni a questa parte, anche se poi ci sono collegamenti che arrivano fino a due decenni fa e oltre;

non sto qui a dire come dove quando è iniziato, ma di sicuro voglio postare una piccola tappa che per me è molto importante.

Di seguito  il racconto scritto per partecipare ad una piccola antologia Il Mio Paese ,durante il corso di scrittura Parole tra noi Leggere, di Anna Catapano e Emilia Bersabea Cirillo, ma che poi, per un capovolgimento del destino e soprattutto per un grande consiglio di Emilia, ha partecipato ad un altro concorso, Nautilus, con annessa antologia vedendomi finalista e pubblicata nella raccolta Paese Mio.

il racconto originale aveva come titolo Tittina, nome della mia adoratissima nonna, che poi ho cambiato prima del concorso in:

Il Profumo della Storia

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        Non ho mai avuto un paese di origine, un paese della provincia, ho avuto soltanto casa mia. La mia casa è sempre quella dell’infanzia, è la casa di via Baccanico 36 C.

L’abbiamo lasciata nel Luglio del ’99, e ancora me la porto dentro, nei sogni, negli incubi, resta il mio luogo. Ho vissuto lì, con mamma, papà, mio fratello, Gorby, la mia cagna, e i nonni, prima la mamma di mia madre e poi il padre di mio padre. Tittina, prima e Trento, poi, hanno abitato con me.

Non avevo la casa dei nonni, dove andare alla domenica, o quando i miei non c’erano, non avevo il paese di provincia dove andare alle feste comandate, al cimitero il giorno dei morti; al falò in piazza in pieno inverno, o alla fiera in estate; c’era soltanto casa mia.

Ricordo le mie amiche, le mie compagne di classe, che il sabato subito dopo la scuola partivano per il paese, ricordo la fretta nel fare i compiti perché trepidanti all’idea dei parenti, degli amici che avrebbero incontrato.

Il paese era ai miei occhi un luogo mistico, dove ogni cosa era sicuramente più interessante di ciò che vivevo io.

Ed è così che nella mia fantasia presero posto luoghi come Fontanarosa, Lacedonia e Zungoli e ancora Tufo e Altavilla. Luoghi interessanti, dove c’era la piazza gremita dopo la messa della domenica mattina, la pasticceria del corso, la pelletteria della zia, i ragazzi seduti al bordo della fontana che ti guardavano e ti facevano l’occhiolino, e le amiche, le cugine, che ti aspettavano smaniose di condividere i segreti e le novità che avevano riempito il lungo periodo della tua assenza.

Io, a via Baccanico 36 C non riuscivo a competere con le famiglie del paese; che ne potevo sapere dei segreti detti in bagno, dopo il pranzo della domenica, delle chiacchierate con i cugini dinnanzi al camino con le caldarroste, della vicina, mezza cugina, col figlio adolescente che ti piaceva da morire, e che ti aspettava nel vicolo dietro il cortile.

E le vacanze di Natale, gli auguri, i giochi e la messa a tarda notte, il presepio vivente, la pattinata sul ghiaccio.

Io stavo a casa ad Avellino, percorrevo a piedi o in macchina via Palatucci, andavo ai Platani, da Paolo il giornalaio, facevo il giro del muretto sotto l’edicola mentre mamma parlava, alla merceria di Sandrino che conosceva la nonna; la domenica avevo il Rosario e qualche volta San Ciro; il cinema Giordano nella galleria, e la pizza da Tonino.

Quando crebbi un po’ di più ebbi la scuola a via Colombo prima e poi via De Concili, e la piazza del tribunale, ma il paese sarebbe stato sicuramente più bello, più interessante.

Riuscivo a vedere quei posti raccontati come fossero miei, Volturara, Calabritto, addirittura conoscevo Guardia dei Lombardi. E intanto vivevo a casa mia, a via Baccanico, al sesto piano di un palazzo con l’ascensore che non aveva le porte automatiche e neanche lo specchio. Avevo un’enorme terrazza, grande quanto tre stanze unite, da dove potevo vedere il sole sorgere e tramontare, dove se ti spingevi nell’angolo a destra per l’ultimo raggio di sole della giornata potevi scorgere l’amica di tutti, la Montagna di Montevergine, presenza sicura e ingombrante che come era solita dire mamma -“Ti ha salvato la vita nel Novembre del’80, ha assorbito le onde, ci ha protetti anche quella volta, come con la Sindone nella guerra, e come fa sempre se preghi la Madonnina e la vai a trovare”-.

Sulla terrazza ho imparato ad andare in bicicletta e a pattinare, giocavo all’Hula hop e ballavo con Luisa la musica di Grease.

In casa c’era un lungo corridoio dove si aprivano tante stanze e le ultime in fondo erano per me luoghi mistici, di scoperta. Ogni anta dell’armadio a muro, ogni cassetto del salone era un luogo, un ‘avventura, rovistavo, scoprivo, lo facevo quando ero sola, quando non avevo i compiti, e quando la nonna non c’era. La stanza della nonna Tittina poi, un mondo a sé, una parentesi di vita; le domeniche trascorse senza di lei erano infinite, tediose, i miei che riposavano, il silenzio della casa, la solitudine, le potevo superare soltanto scavando, scoprendo una vita, la sua vita, fatta di un altro tempo.

La nonna era di viale Italia, era nata in piazza Libertà nel 1913, aveva trascorso l’infanzia nella casa vicino al Loreto, e poi con la famiglia si era trasferita in centro; mi raccontava che dove ora si trova la chiesa di San Ciro, un tempo vi era la cappella della sua famiglia, la foto del suo matrimonio dinnanzi a quel cancello con un bouquet di fiori troppo grande, troppo vistoso per i suoi gusti. Lo aveva rifiutato fino alla fine, ma sua madre aveva insistito – “Prendilo Tittina è un regalo di tuo fratello Vincenzo, vorresti rifiutare anche questo “-. Erano gli anni trenta, e Tittina stava per sposare Antonio, più grande di lei di tredici anni, andava a cavallo, e al primo incontro le aveva fatto il baciamano. Antonio era alto e bello, e anche le sorelle di Tittina ne erano invaghite. Aveva scelto la vita dell’arma per sfuggire alla povertà, al disonore, alla disapprovazione di quei tempi. Tittina, invece, era di famiglia benestante, proprietari di terre, aveva deciso di seguire il cuore nonostante i tanti spasimanti – Pensa te, mi voleva quel dottore dell’America, ma non mi piaceva, sudava e aveva sempre il cappello stropicciato – diceva sempre ridendo.

Scelse Antonio e per questo non ricevette mai l’approvazione della famiglia di origine. Era la prima figlia di sei, era piccolina e un po’ tondetta con occhi verdi vita stretta e un bel decoltè. Aveva perso il suo papà dopo la prima guerra mondiale per “ un favo all’orecchio”; solo dopo che sono cresciuta ho capito che anche in quel tempo lontano, il cancro era già presente nella nostra famiglia.

La nonna mi raccontava sempre di quando il suo papà, mentre tornava a casa di notte, a cavallo, aveva raccolto un bambino in fasce a contrada Macchia, lungo il fiume, lo aveva messo in groppa con lui e si erano incamminati verso via Roma, ad un tratto il suo cavallo aveva stentato nell’andatura, era troppo appesantito, perché in realtà il bambino era uno spirito maligno che uccise il cavallo e che avrebbe voluto uccidere anche lui.

La nonna mi raccontava sempre dei raccolti delle nocciole, dei pasti che lei aiutava a preparare, era in quelle occasioni che aveva imparato a cucinare, in quei momenti si era in tanti, con gli operai delle terre, i braccianti e i sacchi pieni di “nocelle” che avevano l’odore di legno e di terra.

Mi raccontava di quella volta che la sua mamma, Emilia, aveva legato un ladro ad un albero di ciliegio, dopo la morte di suo marito era solita fare la ronda a cavallo vestita da uomo e con il fucile.

Tittina aveva scelto l’amore e aveva dovuto stringere la cinghia, diventare mamma di sette figli, di cui ne sopravvissero solo cinque, la mia mamma era l’ultima e veniva dopo quattro maschi. Aveva seguito il nonno Antonio nelle varie stazioni dove era maresciallo, mi raccontava sempre che a Striano aveva visto la pioggia nera –” Il Vesuvio ha fatto piovere cenere, stavamo coi fazzoletti in faccia e la terra era tutta grigia” -.

Ma poi era voluta tornare ad Avellino nella città, e crescere i figli.

Tagliò ogni contatto con la famiglia del nonno Antonio, suo marito, tanto che la mia mamma non conobbe mai i nonni paterni. Li vide solo una volta, dopo aver salito delle lunghe scalinate in un vicolo vicino al Duomo, dove una vecchina con uno scialle la strinse a sé e la baciò piangendo.

Quando Tittina e Antonio si sposarono, lui indossava la divisa col mantello di velluto, l’alta divisa dei carabinieri a cavallo, lei un abito scivolato di seta color avorio e i guanti di pizzo. Acquistarono tutti i mobili nuovi di un laccato lucido molto moderno per gli anni trenta; e questa “mobilia” come diceva sempre lei, le era talmente cara che l’aveva sempre accompagnata fino alla casa di via Baccanico 36 C.

Un pezzo di quei mobili si trova ora a casa mia, la “ballerina” con il suo lungo specchio,  il piccolo cassetto e il pomello a palla d’ottone scurito. Di questi mobili ricordo l’enorme specchio che costituiva l’anta dell’armadio con piccoli segni e macchie nere, fu in quello specchio che all’età di nove anni scorsi la prima bolla di varicella sulla tempia sinistra, dove ancora ne porto la cicatrice. I mobili della nonna erano così profumati, un misto di lavanda e violetta, e odore di leocrema che Tittina spalmava in continuazione.

Ogni cassetto aveva la sua funzione, il suo specifico contenuto, quello delle sottane, delle lenzuola di lino, delle maglie con i bottoni e gli scialle, e   il cassetto del comò, grande e doppio con le maniglie lunghe, era il cassetto dei ricordi. C’era la scatola di latta verde con i fiori stampati, con dentro le foto di nonno, nonna i parenti, gli amici, i cugini dell’America, la zia di Parigi, c’erano i certificati di nascita degli zii, le coccarde della comunione, le spille da balia, i guanti di pelle bianca, e poi le foto del funerale del nonno Antonio, un intero album in bianco e nero con una copertina di pizzo, erano foto del luglio del ’60, Avellino era molto diversa, via tagliamento aveva un ponte che passava su un fiume, e i cavalli che portavano la carrozza e ancora noccioli tutto intorno.

La nonna Tittina non si riprese mai dalla morte del suo adorato Antonio, il cuore le si spezzò per sempre il giorno in cui cadde dalla bicicletta e batté la testa, lei sopravvisse per i suoi figli e poi per i suoi nipoti, ma restò sempre una donna forte dal cuore spezzato.

La ricordo ancora, mentre mi spiegava le cose della vita, mentre parlava con la mamma di cose antiche ma sempre vere -“la vita è antica, più antica dell’uomo, ma l’uomo e la vita sono sempre gli stessi” – una saggezza che veniva dal profondo, una sensazione di forza costruita sulle sofferenze che non ti lasciano più, che diventano tue che ti accompagnano per sempre.

Quella eredità di donna che ti insegna la vita, che ti insegna la tua storia. L’ultimo cassetto è ancora nel comò, adesso è nella stanza di mia madre, a volte lo apro, spero ancora di sentirne il profumo, ma è passato troppo tempo; allora chiudo gli occhi e mi concentro vedo la nonna, seduta sulla sua sedia di legno laccato, che mi guarda attraverso lo specchio del suo armadio, lì in camera sua, a casa mia, a via Baccanico 36 C.

E’Agosto, è il 1984, io indosso un vestito di cotone fucsia con le spalline larghe a fiori stampati, è l’estate dopo la quarta elementare, siamo quasi pronte ci aspettano per il matrimonio di Tonino il suo ultimo nipote, l’ultimo figlio di suo fratello Vincenzo.

La chiesa è quella di San Ciro, quella che un tempo era la cappella di famiglia, nonna è stanca, è vestita in modo elegante, mi sta mettendo del profumo, le sue mani, le dita storte, l’anello all’anulare e la sua pelle candida, il neo rosso sul decoltè, mi tocca dietro le orecchie e mi dice “una donna ha sempre un buon profumo”.

E’ l’ultimo ricordo che ho di lei, se ne andò quel giorno, per sempre, mentre eravamo tutti in chiesa; in quella chiesa che un tempo era casa sua.

Io non ho un paese d’origine, vengo dalla città, le mie origini erano i miei nonni, i loro ricordi, i loro racconti, gli odori e le immagini che riesco a ricordare.

Oggi, quando ricevo un complimento al mio profumo, alla mia “scia” ne sono contenta, perché è un complimento fatto alla mia storia, alla nonna Tittina.

Mafalda Fusilli  2017

PS: La storia della nostra vita siamo noi, ma non è detto che ciò che ricordo sia quello che ricordano altri, o quello che è accaduto davvero.

Le mie Cime Tempestose

Le mie Cime Tempestose

C’ è voluto il “Maggio dei libri” al liceo scientifico P.S. Mancini a farmi ricordare delle mie Cime .

Luglio 1990 Calabria e per la precisione Guardia Piemontese, vacanze al mare, Bruno , il nonno Trento, Gorby e i miei tormenti di quindicenne.

Un libro verde rilegato con la scritta dorata, la mia amica delle vacanze Maria che veniva da Rose, la mamma venezuelana e il papà calabrese, una raccolta di Repubblica, quando internet era quello War Games e lo smart phone era il telefono di Gordon  Gekko di Wall Street.

Non avevo idea delle sorelle Bronte, nè dei grandi classici, non mi ero affacciata ai libri seri, anche se mi credevo una tipa “serissima”,  ricordo che ero  incazzata col mondo intero, costretta a stare lontana dagli amici, dalle uscite, dal mio  motorino,  e dal ragazzo del tempo; che drammi.

A scuola era andata da schifo, mi ero messa in un serio casino, i miei quindici anni non mi facevano capire che alcuni di quei pasticci me li sarei pianti a vita;

ero solo incavolata, burbera e acida, in sostanza ero un’adolescente.

Il libro me lo diede Lei, che non lo aveva neanche letto, ma per atteggiarsi a tipa più grande mi disse che, se fosse stato come Dr. Jeckyl and Mr Hyde sarebbe stato bellissimo.

Facevano parte della stessa raccolta,

uno era di colore bordeaux e l’altro verde bottiglia.

La traduzione era stata fatta per intero anche dei nomi dei protagonisti, c’era un segnalibro dorato fatto di cordicella, mi ricordava tanto quello che muoveva il prete, sull’altare, nel libro dei sermoni, a seconda della lettura.

Fui subito attirata forse perché era facile strumento di evasione dalla famiglia, dalla realtà.

Non capivo niente dello spessore del personaggio, del punto di vista, del media res, della storia nella storia.

Ricordo l’empatia con cui lessi la storia, mi sentivo molto protagonista di una vita complicata, di un luogo ameno e burrascoso il mio Wuthering Heights , ero proprio nella brughiera dell Yorkshire, solo che si trovava nel sud del Tirreno, dove c’erano quaranta gradi all’ombra, e ancora più strano è che io mi sentivo molto più Heathcliff che Catherine.

Dunque Cime Tempestose, le mie Cime, una storia d’amore, di amicizia, di sofferenza, di appuntamenti con la vita puntualmente disattesi, di personaggi sinceri nel loro essere sbagliati.

La storia d’amore di tutte le storie, per me;

sarà per questo che le storie più sono complesse e ostacolate e più mi piacciono, e come se quel pathos delle mie Cime mi avesse drogata a vita.

Quelle anime sospese, immortali nella sofferenza, a volte penso che se avessi letto un libro più semplice avrei avuto un’altra vita.

IMG_8443Sono trascorsi semplicemente 27 anni, sono nella mia vecchia scuola, al Mancini, nella categoria ex alunni, per leggere il libro che “Ti ha cambiato la vita”, il libro,  sempre quello, più vecchio anche lui, con le pagine ingiallite e il cordoncinno sfilacciato, ma l’emozione sempre la stessa; dinnanzi ad un pugno di adolescenti e a qualche insegnante non ho potuto fare a meno di leggere la descrizione più assurda e più vera di cosa sia l’amore:

<Ma non è nulla, volevo solamente dire che il cielo non mi sembrava casa mia; e piansi disperatamente per tornare sulla terra ; e gli angeli furono così adirati che mi gettarono in mezzo alla landa in vetta alle Cime Tempestose; e là mi svegliai singhiozzando di gioia: questo sogno servirà a spiegarti il mio segreto, come quell’altro. Non ho più scopo a sposare Edgar Linton più di quel che abbia a stare in cielo; e se quel malvagio uomo che è di là non avesse gettato Heactchcliff così in basso, non ci avrei pensato. Ora mi avvilirei a sposare Heatchcliff; così egli non saprà mai come lo amo; e questo non perchè sia bello Nelly, ma perchè egli è più di me stessa. La sua anima e la mia sono una cosa sola; e Linton è diverso come può essere un raggio di luna da un lampo, o il ghiaccio dal fuoco.>……………………….

<Separati! Chi ci separerà, di grazia? Sarà fatica gettata al vento! Fino a che vivrò. Per nessuno che viva in questo mondo.. Tutti i Linton potranno scomparire dalla faccia della terra, prima che consenta a dimenticare Heathcliff>……………………………………….

<Gli altri motivi sono la soddisfazione dei miei capricci: e anche per amore di Edgar, per soddisfare lui. Questo è amore di chi racchiude  nella sua persona i miei sentimenti per Edgar e per me stessa. Non so esprimerlo; ma certo tu e tutti avete l’idea che ci sia , o debba esserci un’esistenza dopo di questa. A che cosa servirebbe esistere, se io fossi tutta contenuta qui? I miei grandi dolori in questo mondo sono stati i dolori di Heathcliff, e li ho contemplati e provati tutti fin dall’inizio; il mio grande pensiero della vita è lui. Se tutto il resto crollasse, e lui restasse, io continuerei ad esistere; e se tutto il resto rimanesse, e lui fosse annullato, L’Universo diventerebbe un enorme estraneo. Non ne farei parte. Il mio amore per Linton è come foglie di bosco. Il tempo lo cambierà lo so bene, come l’inverno cambia gli alberi. Il mio amore per Heathcliff assomiglia alle rocce eterne là sotto: è una fonte di scarsa gioia visibile, ma è necessario. Nelly io sono Heathcliff . Lui è sempre sempre nei miei pensieri, non come un piacere, non più di quanto io sia un piacere per me stessa, ma come il mio stesso essere. Quindi non parlare più della nostra separazione è impossibile>

nb: sono passi tratti dal dialogo tra Nelly e Catherine

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

perché Donna!

E’ nelle ricorrenze come  oggi che il mio essere mamma ha molto più valore, molto più senso.

Essere mamma di figli maschi, oggi, nella festa della donna, ha ancora un altro significato  la mia responsabilità si amplifica, il mio compito si infittisce.

E’ il ruolo più importante della mia vita quello di formare, due maschi che un giorno, me lo auguro con tutta me stessa, saranno due uomini.

E mi auguro  anche, che possano essere Uomini con la “U” maiuscola, ma questo dipenderà anche da me, da ciò che sarò capace di trasmettergli attraverso il mio amore, ma anche attraverso il rispetto che pretenderò del mio essere Donna.

Io li ho generati, ma il compito più arduo è crescerli, è una grande responsabilità, senza fine, quella di monitorare e valutare i loro comportamenti, la loro considerazione per il prossimo, ma soprattutto, visti i tempi che viviamo, la loro considerazione per il genere femminile, per la Donna.

Se durante la mia giovinezza la ricorrenza per la festa della donna era un momento quasi glamour fatto di fiori, e regali, nella mia maturità ha assunto connotati molto più significativi, come il valore, il rispetto del genere femminile, la considerazione della  libertà di agire.

E’  proprio in questo giorno, in questa festa dagli innumerevoli aspetti che il mio pensare va alle donne che sono madri, che hanno generato ed amato i propri figli maschi, e che improvvisamente, e forse non sempre così all’improvviso, li hanno visti trasformare in mostri, assassini, violenti, picchiatori.

Figli disorientati e spaventati, incapaci di reagire alle difficoltà della vita, ai quali ci si è dimenticati di insegnare che non c’è bisogno della violenza per imporsi, e per dimostrare il proprio valore, la propria mascolinità.

Figli capaci di ricorrere solo al proprio istinto animale per difendersi.

Figli che hanno pensato alla Donna come essere inferiore, perché così gli è stato insegnato, da padri violenti, da madri sottomesse o troppo superficiali.

Il mio tributo a questo giorno, è la mia volontà di essere rispettata come donna prima nella mia famiglia e poi nel resto del mondo, è la mia volontà di essere un esempio per i miei figli che possano pensare che tutte le donne sono come me e non ce n’è nessuna inferiore o meritevole di essere trattata diversamente.

Il fiore che riceverò, l’augurio che mi sarà fatto, il rispetto che mi sarà dato sarà un esempio per i miei figli, un insegnamento per come dovranno interagire con le Donne della loro vita. E se solo metteranno in pratica la metà di quello che gli avrò trasmesso, la mia vita di Donna, il mio essere mamma avrà avuto un Senso.IMG_2450

PS: Da un piccolo esercizio di scrittura il mio primo TAUTOGRAMMA

Mafalda

Meravigliosamente Mamma,

Moderatamente Moglie

Magicamente Me

Mattiniera, Mangiatrice, Miscredente Maestra

Mostruosamente Matta

Mio Malgrado

Miracolosamente Migliore.

Una mamma del sud

Buon Compleanno.

Buon Compleanno.

Oggi è il mio compleanno.

Classe 1974, sono 42, non che ci voglia Gauss per dire che sono più di quaranta.

Lo dico senza nessuna vergogna e senza nessuna reticenza, e sebbene tutti a dire ma sei giovanissima, io so, che molti pensano che non è poi così vero che gli anta sono anta e non sono enta, che sebbene siamo la generazione QT c’è una boa dalla quale l’orizzonte è sempre più lontano soprattutto a quaranta.

E infatti Quarantadue non sono pochi, lo vedi nello specchio, nelle linee del viso, del collo, lo vedi sulle mani, lo vedi negli occhi dei tuoi genitori.

Eppure,  io non so cosa significa avere quarant’anni. Forse per saperlo dovrei arrivare a cinquanta e scrivere delle differenze tra i due zeri, dei cambiamenti, delle attese puntualmente disattese, dei progressi, dei rimpianti, dei piaceri, ahimè dei dispiaceri che accompagnano un decennio, che accompagnano una vita.

Ieri sera mi sono soffermata a pensare perché bisogna festeggiare il compleanno, il giorno natale, non ho voglia e poi sono grande che senso ha. Da piccoli è tutto più bello, si è felici di essere considerati, i regali anche quelli più sciocchi sono una festa, gli auguri sono una festa ancor più grande, a quarantadue non desideri più regali perché quello che vorresti è quasi irraggiungibile e il resto ce l’hai quindi che fai….a quarantadue pensi, rifletti e ricordi che sei quella ragazzina di Pretty in Pink che ha vissuto per anni col mantra vai Distruggili tutti e torna a casa; sei stata convinta di essere comunista fino a quando hai visto tuo padre inorridire, perché sei tornata a casa con la rivista di Lotta Comunista, ma erano gli anni del movimento della Pantera e tu ci credevi tanto; sei stata la bambina che ha pianto con Sacco e Vanzetti e con Revenge; sei stata l’adolescente che non usciva perché c’era Beverly Hills in tv; a quarantadue ricordi di essere stata della fazione dei Grunge di Seattle, solo nella tua testa e con il tuo armadio; sei stata la liceale della gita senza ritorno a Lloret de Mar; dei Doors,  e Talking Heads. A quarantadue ridi a crepapelle solo al ricordo degli scherzi in classe, delle bugie che hai raccontato ai tuoi, dei vestiti improponibili che vedi nelle foto. A quarantadue ricordi i parties nelle discoteche degli anni novanta, della tua Renault 4 bianca, le videocassette i cd e dvx, della tua Red Rose viola e del Si blu elettrico. Ricordi dell’università, il primo esame di matematica, il professore di chimica, il primo lavoro, le interviste, il tuo compagno, i dischi, le litigate, le risate. A quarantadue ricordi che volevi essere un medico, una ballerina, un’attrice. Ricordi degli amici, dei tuoi cari, dei tuoi figli, di quando sono nati, di quanto li adori e di quanto sei fortunata.

Io non so cosa significa avere quarant’anni, ma so come sono io a quarantadue, sono più serena, più felice e più rilassata.

Non voglio più diventare nessuno se non me stessa.

Voglio continuare questa strada perché finalmente mi sembra quella buona.

E soprattutto ho capito che dopo i quaranta, e ancora,  il compleanno  lo festeggerò e lo renderò speciale, almeno per un secondo, perchè sono fortunata, perché ci sono, perché ricordo.

 

Ps: il mio pensiero non può che andare a coloro che a quarantadue ci sono arrivati e se ne sono andati, a qualcuno che non ha visto neanche il ventiquattro, e qualcun altro che quarantadue lo ha superato per poco e se ne è andato. Festeggerò anche per loro.

 

 

Amo Lucia Berlin.

Amo Lucia Berlin.

Amo Lucia Berlin.

In Italia è La donna che scriveva racconti di Bollati e Bordigheri.

Ho letto il libro non potendo fare a meno di prendere appunti.

Storie brevi, semplici,  persone al margine della vita, ma vere sempre più vere.

Ho letto questo libro con calma, quasi una voluta lentezza, un po’ perché provavo dolore all’idea di separarmene, un po’ perché volevo farlo mio, inglobarlo come in una fagocitosi.

Ho letto la vita di Lucia Berlin, un romanzo di vita reale, una vita avventurosa sofferente, entusiasmante tra Alaska, New Mexico, Cile, Texas, Messico, California.

Ho trovato lei in ogni suo racconto, anche quando palesemente si capiva che il tutto era romanzato da una penna poetica, sognante.

I suoi racconti, la povertà, la ricchezza, la dipendenza dall’alcol, le droghe, le disintossicazioni, tutte verità indistinguibili tra storie vere e inventate.

Il suo stile diretto, semplice, immediato. Frasi brevi, incisive. Ambienti descritti in modo sublime tra colori e profumi.

Gli amori commoventi, gli incontri con persone straordinarie, poeti dei sentimenti.

Le sue esperienze come donna delle pulizie, che dà il titolo all’edizione americana del libro “Manuale per donne delle pulizie”, la sua lunga lotta all’alcolismo, la maternità sperimentata per quattro volte, quattro matrimoni, tanti amori, l’insegnamento nelle scuole e poi al college,  il lavoro al pronto soccorso negli anni settanta. La sua famiglia d’origine, i nonni, i suoi genitori e poi sua sorella, che morirà prima di lei per un cancro.

Tutta la sua vita è stata una profonda ispirazione, umorismo anche nella sofferenza.

Ho avuto una folgorazione e sto cercando di continuare questa love story leggendo Lucia in lingua originale. Ho finito Where I Live Now, in lingua originale perché purtroppo non si trovano traduzioni in lingua italiana; la mia ricerca continua perché non è semplice reperire i suoi libri anche in lingua inglese, tutti racconti che nel corso degli anni sono stati pubblicati su riviste, e che le hanno permesso di vincere diversi premi per la letteratura.IMG_4830

Amo Lucia Berlin, è diventata una mia amica, lei, Carlotta, Mona, Maggie, Dolores, Maria. Ho pianto quando ho letto la storia di Carmen in Mijito. Ho riso con il dottorH.A Moynihan, per poi scoprire che quel pazzo dentista era il nonno materno della scrittrice. Mi ha commosso Let me see you smile, con le sue crude verità.

La donna che scriveva racconti resterà sul mio comodino, non lo metterò insieme agli altri, perché per me è qualcosa di speciale che non può essere mischiato; sono quelle sensazioni che si manifestano a pelle e che poi, almeno per me, si concretizzano sempre in grandi esperienze.

Amo le cose normali, perché è nella reale normalità che si trova la vera rivoluzione dei nostri giorni, e Lucia lo aveva già capito tanto tempo fa.

Consiglio di leggere questo libro a tutti quelli che hanno voglia di reale normalità, di spaccati sociali tristi ma veri, di sentimenti concreti, a coloro che vogliono piangere ridendo, che vogliono sentirsi pieni.