Crederci e poi crederci sempre.

Crederci e poi crederci sempre.

Tante cose strane  ti succedono nella vita,  cascate di eventi che sembrano slegati tra loro, ma che poi si agganciano in un disegno troppo complesso e intelligente per poterlo immaginare, e non c’è immaginazione che tenga, perché guardando indietro capisci, che tutto ciò che sembrava casuale, era in realtà un piccolo progetto di vita con te come protagonista, ma tu piccolo essere umano, non avresti mai potuto avere tanta e poi ancora tanta fantasia da  indovinare dove certe cose vanno a…..” parare”.

Forse sto vaneggiando, non lo so, ma in questo momento è così che vedo tutto quanto mi è successo da tre anni a questa parte, anche se poi ci sono collegamenti che arrivano fino a due decenni fa e oltre;

non sto qui a dire come dove quando è iniziato, ma di sicuro voglio postare una piccola tappa che per me è molto importante.

Di seguito  il racconto scritto per partecipare ad una piccola antologia Il Mio Paese ,durante il corso di scrittura Parole tra noi Leggere, di Anna Catapano e Emilia Bersabea Cirillo, ma che poi, per un capovolgimento del destino e soprattutto per un grande consiglio di Emilia, ha partecipato ad un altro concorso, Nautilus, con annessa antologia vedendomi finalista e pubblicata nella raccolta Paese Mio.

il racconto originale aveva come titolo Tittina, nome della mia adoratissima nonna, che poi ho cambiato prima del concorso in:

Il Profumo della Storia

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        Non ho mai avuto un paese di origine, un paese della provincia, ho avuto soltanto casa mia. La mia casa è sempre quella dell’infanzia, è la casa di via Baccanico 36 C.

L’abbiamo lasciata nel Luglio del ’99, e ancora me la porto dentro, nei sogni, negli incubi, resta il mio luogo. Ho vissuto lì, con mamma, papà, mio fratello, Gorby, la mia cagna, e i nonni, prima la mamma di mia madre e poi il padre di mio padre. Tittina, prima e Trento, poi, hanno abitato con me.

Non avevo la casa dei nonni, dove andare alla domenica, o quando i miei non c’erano, non avevo il paese di provincia dove andare alle feste comandate, al cimitero il giorno dei morti; al falò in piazza in pieno inverno, o alla fiera in estate; c’era soltanto casa mia.

Ricordo le mie amiche, le mie compagne di classe, che il sabato subito dopo la scuola partivano per il paese, ricordo la fretta nel fare i compiti perché trepidanti all’idea dei parenti, degli amici che avrebbero incontrato.

Il paese era ai miei occhi un luogo mistico, dove ogni cosa era sicuramente più interessante di ciò che vivevo io.

Ed è così che nella mia fantasia presero posto luoghi come Fontanarosa, Lacedonia e Zungoli e ancora Tufo e Altavilla. Luoghi interessanti, dove c’era la piazza gremita dopo la messa della domenica mattina, la pasticceria del corso, la pelletteria della zia, i ragazzi seduti al bordo della fontana che ti guardavano e ti facevano l’occhiolino, e le amiche, le cugine, che ti aspettavano smaniose di condividere i segreti e le novità che avevano riempito il lungo periodo della tua assenza.

Io, a via Baccanico 36 C non riuscivo a competere con le famiglie del paese; che ne potevo sapere dei segreti detti in bagno, dopo il pranzo della domenica, delle chiacchierate con i cugini dinnanzi al camino con le caldarroste, della vicina, mezza cugina, col figlio adolescente che ti piaceva da morire, e che ti aspettava nel vicolo dietro il cortile.

E le vacanze di Natale, gli auguri, i giochi e la messa a tarda notte, il presepio vivente, la pattinata sul ghiaccio.

Io stavo a casa ad Avellino, percorrevo a piedi o in macchina via Palatucci, andavo ai Platani, da Paolo il giornalaio, facevo il giro del muretto sotto l’edicola mentre mamma parlava, alla merceria di Sandrino che conosceva la nonna; la domenica avevo il Rosario e qualche volta San Ciro; il cinema Giordano nella galleria, e la pizza da Tonino.

Quando crebbi un po’ di più ebbi la scuola a via Colombo prima e poi via De Concili, e la piazza del tribunale, ma il paese sarebbe stato sicuramente più bello, più interessante.

Riuscivo a vedere quei posti raccontati come fossero miei, Volturara, Calabritto, addirittura conoscevo Guardia dei Lombardi. E intanto vivevo a casa mia, a via Baccanico, al sesto piano di un palazzo con l’ascensore che non aveva le porte automatiche e neanche lo specchio. Avevo un’enorme terrazza, grande quanto tre stanze unite, da dove potevo vedere il sole sorgere e tramontare, dove se ti spingevi nell’angolo a destra per l’ultimo raggio di sole della giornata potevi scorgere l’amica di tutti, la Montagna di Montevergine, presenza sicura e ingombrante che come era solita dire mamma -“Ti ha salvato la vita nel Novembre del’80, ha assorbito le onde, ci ha protetti anche quella volta, come con la Sindone nella guerra, e come fa sempre se preghi la Madonnina e la vai a trovare”-.

Sulla terrazza ho imparato ad andare in bicicletta e a pattinare, giocavo all’Hula hop e ballavo con Luisa la musica di Grease.

In casa c’era un lungo corridoio dove si aprivano tante stanze e le ultime in fondo erano per me luoghi mistici, di scoperta. Ogni anta dell’armadio a muro, ogni cassetto del salone era un luogo, un ‘avventura, rovistavo, scoprivo, lo facevo quando ero sola, quando non avevo i compiti, e quando la nonna non c’era. La stanza della nonna Tittina poi, un mondo a sé, una parentesi di vita; le domeniche trascorse senza di lei erano infinite, tediose, i miei che riposavano, il silenzio della casa, la solitudine, le potevo superare soltanto scavando, scoprendo una vita, la sua vita, fatta di un altro tempo.

La nonna era di viale Italia, era nata in piazza Libertà nel 1913, aveva trascorso l’infanzia nella casa vicino al Loreto, e poi con la famiglia si era trasferita in centro; mi raccontava che dove ora si trova la chiesa di San Ciro, un tempo vi era la cappella della sua famiglia, la foto del suo matrimonio dinnanzi a quel cancello con un bouquet di fiori troppo grande, troppo vistoso per i suoi gusti. Lo aveva rifiutato fino alla fine, ma sua madre aveva insistito – “Prendilo Tittina è un regalo di tuo fratello Vincenzo, vorresti rifiutare anche questo “-. Erano gli anni trenta, e Tittina stava per sposare Antonio, più grande di lei di tredici anni, andava a cavallo, e al primo incontro le aveva fatto il baciamano. Antonio era alto e bello, e anche le sorelle di Tittina ne erano invaghite. Aveva scelto la vita dell’arma per sfuggire alla povertà, al disonore, alla disapprovazione di quei tempi. Tittina, invece, era di famiglia benestante, proprietari di terre, aveva deciso di seguire il cuore nonostante i tanti spasimanti – Pensa te, mi voleva quel dottore dell’America, ma non mi piaceva, sudava e aveva sempre il cappello stropicciato – diceva sempre ridendo.

Scelse Antonio e per questo non ricevette mai l’approvazione della famiglia di origine. Era la prima figlia di sei, era piccolina e un po’ tondetta con occhi verdi vita stretta e un bel decoltè. Aveva perso il suo papà dopo la prima guerra mondiale per “ un favo all’orecchio”; solo dopo che sono cresciuta ho capito che anche in quel tempo lontano, il cancro era già presente nella nostra famiglia.

La nonna mi raccontava sempre di quando il suo papà, mentre tornava a casa di notte, a cavallo, aveva raccolto un bambino in fasce a contrada Macchia, lungo il fiume, lo aveva messo in groppa con lui e si erano incamminati verso via Roma, ad un tratto il suo cavallo aveva stentato nell’andatura, era troppo appesantito, perché in realtà il bambino era uno spirito maligno che uccise il cavallo e che avrebbe voluto uccidere anche lui.

La nonna mi raccontava sempre dei raccolti delle nocciole, dei pasti che lei aiutava a preparare, era in quelle occasioni che aveva imparato a cucinare, in quei momenti si era in tanti, con gli operai delle terre, i braccianti e i sacchi pieni di “nocelle” che avevano l’odore di legno e di terra.

Mi raccontava di quella volta che la sua mamma, Emilia, aveva legato un ladro ad un albero di ciliegio, dopo la morte di suo marito era solita fare la ronda a cavallo vestita da uomo e con il fucile.

Tittina aveva scelto l’amore e aveva dovuto stringere la cinghia, diventare mamma di sette figli, di cui ne sopravvissero solo cinque, la mia mamma era l’ultima e veniva dopo quattro maschi. Aveva seguito il nonno Antonio nelle varie stazioni dove era maresciallo, mi raccontava sempre che a Striano aveva visto la pioggia nera –” Il Vesuvio ha fatto piovere cenere, stavamo coi fazzoletti in faccia e la terra era tutta grigia” -.

Ma poi era voluta tornare ad Avellino nella città, e crescere i figli.

Tagliò ogni contatto con la famiglia del nonno Antonio, suo marito, tanto che la mia mamma non conobbe mai i nonni paterni. Li vide solo una volta, dopo aver salito delle lunghe scalinate in un vicolo vicino al Duomo, dove una vecchina con uno scialle la strinse a sé e la baciò piangendo.

Quando Tittina e Antonio si sposarono, lui indossava la divisa col mantello di velluto, l’alta divisa dei carabinieri a cavallo, lei un abito scivolato di seta color avorio e i guanti di pizzo. Acquistarono tutti i mobili nuovi di un laccato lucido molto moderno per gli anni trenta; e questa “mobilia” come diceva sempre lei, le era talmente cara che l’aveva sempre accompagnata fino alla casa di via Baccanico 36 C.

Un pezzo di quei mobili si trova ora a casa mia, la “ballerina” con il suo lungo specchio,  il piccolo cassetto e il pomello a palla d’ottone scurito. Di questi mobili ricordo l’enorme specchio che costituiva l’anta dell’armadio con piccoli segni e macchie nere, fu in quello specchio che all’età di nove anni scorsi la prima bolla di varicella sulla tempia sinistra, dove ancora ne porto la cicatrice. I mobili della nonna erano così profumati, un misto di lavanda e violetta, e odore di leocrema che Tittina spalmava in continuazione.

Ogni cassetto aveva la sua funzione, il suo specifico contenuto, quello delle sottane, delle lenzuola di lino, delle maglie con i bottoni e gli scialle, e   il cassetto del comò, grande e doppio con le maniglie lunghe, era il cassetto dei ricordi. C’era la scatola di latta verde con i fiori stampati, con dentro le foto di nonno, nonna i parenti, gli amici, i cugini dell’America, la zia di Parigi, c’erano i certificati di nascita degli zii, le coccarde della comunione, le spille da balia, i guanti di pelle bianca, e poi le foto del funerale del nonno Antonio, un intero album in bianco e nero con una copertina di pizzo, erano foto del luglio del ’60, Avellino era molto diversa, via tagliamento aveva un ponte che passava su un fiume, e i cavalli che portavano la carrozza e ancora noccioli tutto intorno.

La nonna Tittina non si riprese mai dalla morte del suo adorato Antonio, il cuore le si spezzò per sempre il giorno in cui cadde dalla bicicletta e batté la testa, lei sopravvisse per i suoi figli e poi per i suoi nipoti, ma restò sempre una donna forte dal cuore spezzato.

La ricordo ancora, mentre mi spiegava le cose della vita, mentre parlava con la mamma di cose antiche ma sempre vere -“la vita è antica, più antica dell’uomo, ma l’uomo e la vita sono sempre gli stessi” – una saggezza che veniva dal profondo, una sensazione di forza costruita sulle sofferenze che non ti lasciano più, che diventano tue che ti accompagnano per sempre.

Quella eredità di donna che ti insegna la vita, che ti insegna la tua storia. L’ultimo cassetto è ancora nel comò, adesso è nella stanza di mia madre, a volte lo apro, spero ancora di sentirne il profumo, ma è passato troppo tempo; allora chiudo gli occhi e mi concentro vedo la nonna, seduta sulla sua sedia di legno laccato, che mi guarda attraverso lo specchio del suo armadio, lì in camera sua, a casa mia, a via Baccanico 36 C.

E’Agosto, è il 1984, io indosso un vestito di cotone fucsia con le spalline larghe a fiori stampati, è l’estate dopo la quarta elementare, siamo quasi pronte ci aspettano per il matrimonio di Tonino il suo ultimo nipote, l’ultimo figlio di suo fratello Vincenzo.

La chiesa è quella di San Ciro, quella che un tempo era la cappella di famiglia, nonna è stanca, è vestita in modo elegante, mi sta mettendo del profumo, le sue mani, le dita storte, l’anello all’anulare e la sua pelle candida, il neo rosso sul decoltè, mi tocca dietro le orecchie e mi dice “una donna ha sempre un buon profumo”.

E’ l’ultimo ricordo che ho di lei, se ne andò quel giorno, per sempre, mentre eravamo tutti in chiesa; in quella chiesa che un tempo era casa sua.

Io non ho un paese d’origine, vengo dalla città, le mie origini erano i miei nonni, i loro ricordi, i loro racconti, gli odori e le immagini che riesco a ricordare.

Oggi, quando ricevo un complimento al mio profumo, alla mia “scia” ne sono contenta, perché è un complimento fatto alla mia storia, alla nonna Tittina.

Mafalda Fusilli  2017

PS: La storia della nostra vita siamo noi, ma non è detto che ciò che ricordo sia quello che ricordano altri, o quello che è accaduto davvero.